Scritto dal Prov. Avv. Francesco Volpe
La storia della previdenza forense non è recente.
Il primo ente pubblico chiamato ad occuparsene fu l’Ente di previdenza a favore degli avvocati e dei procuratori.
L’art. 2 della relativa legge istitutiva (13 aprile 1933, n. 406) prevedeva già allora l’obbligatorietà della contribuzione, stabilendo che il Governo era “autorizzato ad emanare tutte le ulteriori norme occorrenti per l’organizzazione e il funzionamento dell’Ente di previdenza e per la disciplina delle erogazioni, ad imporre contributi a carico degli iscritti, stabilendo sanzioni disciplinari pel caso di inadempienze”.
Mi sono chiesto, però, come si regolassero gli avvocati, prima di questa legge, quanto alla loro vecchiaia.
Ricordando i tralaticia di chi ci ha preceduti, la risposta non è stata difficile.
L’avvocato saggio accantonava dal suo reddito alcune risorse, che poi erano prevalentemente destinate all’acquisto di immobili. Chi una campagna (più o meno grande, secondo le possibilità), chi case o appartamenti, che poi venivano messi a profitto.
Giunto all’età canonica, l’avvocato continuava in genere a lavoricchiare e integrava il reddito con le rese di quegli immobili. In genere, canoni di affitto. In effetti, non sono rari ancor oggi i casi di chi afferma di essere proprietario di una delle case che il “nonno avvocato” aveva ripartito tra i gli eredi.
Bene, torniamo ai nostri giorni.
Se io, oggi, potessi ammucchiare tutti i quattrini che, in venticinque anni di professione, ho versato all’ente di previdenza, riuscirei a comprarmi un bell’appartamento. Forse anche più di uno. E mi auguro di avere davanti ancora alquanti anni di professione, lungo i quali effettuare altri accantonamenti
Di fatto, l’obbligo previdenziale, però, ha drenato le risorse che, in altri tempi, avrei destinato ad acquistare quell’immobile a garanzia della mia vecchiaia. Cosicché, se si concede la metafora, sotto il profilo economico l’obbligo contributivo mi ha, di fatto, “espropriato” di quell’ideale appartamento.
È vero che, invece dell’affito che l’appartamento mi avrebbe reso, godrò oggi di un trattamento pensionistico.
Ma, nel cambio, ci ho guadagnato o ci ho rimesso?
In termini di valore assoluto delle rendite mensili, credo che la cosa sia più o meno equivalente. È vero che oggi gli affitti sono bassi, ma anche la mia pensione sarà molto bassa e, comunque, dovrò continuare a lavorare o a lavoricchiare.
Tuttavia, ci sono non poche differenze quanto ad altri aspetti.
In primo luogo, un conto è un affitto; un conto è una rendita vitalizia. La seconda ricalca gli schemi del contratto assicurativo, perché, come quello, si basa su una valutazione del “rischio”. Quello di una troppo prolungata sopravvivenza. Se vivrò oltre ciò che le statistiche prevedono, la Cassa ci avrà rimesso; se me ne andrò prima, ci avrà guadagnato e io non avrò ottenuto l’”equivalente” dei versamenti che ho effettuato.
Viceversa, se io avessi comprato quell’appartamento (equivalente in somma capitale ai contributi versati), non avrei corso il rischio di disperdere parte del suo valore, a causa di una mia immatura dipartita.
In effetti, con la mia morte (o con quella dell’eventuale coniuge, se avente diritto alla reversibilità), il capitale da me versato alla Cassa diventerà infruttifero e, se restasse qualcosa, quello verrà definitivamente incamerato dall’ente.
Al contrario, quell’appartamento di cui sono stato idealmente espropriato, con la mia morte passerebbe ai miei eredi e continuerebbe ad essere fonte di reddito anche nei loro confronti. Ove necessario, potrebbe essere alienato, verso corrispettivo.
In una prospettiva di economia familiare (e non di una economia limitata alla mia specifica persona), è stata dunque cambiata una fonte di ricchezza duratura (un piccolo “capitale”) con una fonte di ricchezza necessariamente destinata ad esaurirsi con la mia persona.
Inoltre, quell’appartamento sarebbe fruttifero sin dal giorno in cui io ne avessi acquistato la proprietà. Potrei comprarlo subito, con l’equivalente dei contributi versati, se questi fossero nelle mie disponibilità. Già da oggi comincerei a percepire il canone di affitto.
A rigore, avrei potuto acquistare quell’appartamento fin dai primi anni di professione, contraendo un mutuo e prevedendo di onorarlo con gli accantonamenti degli anni a venire (e di cui attualmente non posso disporre, essendo destinati a pagare i contributi previdenziali). Sin dai primi anni di professione, dunque, l’appartamento avrebbe cominciato a produrre reddito (in tutto o in parte compensato, è vero, dal costo del denaro preso a prestito).
La pensione, invece, mi verrà erogata solo a partire da una certa età. Verosimilmente non prima dei settant’anni. In mezzo sta una forbice di una ventina d’anni di mancato profitto.
Sempre ammesso che, tra vent’anni, io sia ancora vivo. Perché, se così non fosse, allora tutto il mio “capitale” risulterà disperso.
Lascio a voi le conclusioni.
(un ringraziamento a Paolo Patacconi, che ha contribuito a completare alcune delle idee esposte)