In linea generale, l’espressione del pensiero è un diritto che è protetto costituzionalmente (art. 21, cost.). Tuttavia deve ritenersi che rientri tra i diritti costituzionali inviolabili (art. 2, cost.) anche il diritto alla reputazione, cioè a non vedere ingiustamente offesa in pubblico la propria reputazione, che, se viene violata, può dar luogo al reato di diffamazione.
Poiché i due diritti sembrano in certa misura contrapposti, occorre tracciare i confini della libera critica,, che è consentita anche quando è pungente e aspra, e l’insulto o l’offesa gratuita alla reputazione, che è vietata.
La giurisprudenza ha ormai delineato i contorni nei quali le modalità espressive devono essere contenute per essere lecite. Occorre che il pensiero espresso rispetti i seguenti requisiti:
Al ricorrere congiunto dei requisiti ora indicati, la diffusione di notizie offensive della reputazione e dell’onore altrui è lecito e costituisce l’esercizio di un diritto, che esclude l’applicazione di sanzioni o il risarcimento del danno.
Ove, invece, i predetti requisiti, o alcuno di essi, difettino, non si è più in presenza dell’esercizio di un diritto, ma di un fatto illecito che, se doloso e se ha comportato la comunicazione con una pluralità di persone, integra il reato di diffamazione.
Esso è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a milletrentadue euro (peraltro, trattandosi di che sciaguratamente è reato di competenza del Giudice di Pace, non sono concretamente applicabili pene detentive).
Le cose cambiano, e di molto, se il fatto è commesso con il mezzo della stampa “o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità”. In tal caso la cognizione sul reato è di competenza del tribunale e la pena prevista è la reclusione da sei mesi a tre anno o della multa non inferiore a 516 euro.
Nel novero degli altri mezzi di pubblicità (rispetto alla stampa) il cui uso fa scattare l’aggravante del terzo comma dell’art. 595 c.p. rientrano pacificamente i cosiddetti “social network”, come è stato confermato, anche molto recentemente, dalla Cassazione (sent. 30737/2019, che può essere letta qui), perché la diffusione di offese attraverso i social network è “potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone”.
“La esposizione della propria idea in siffatti contesti” – prosegue la Suprema Corte – “lungi dall’essere cautelata da una sorta di immunità da web, è, piuttosto, ‘aggravata’ per la capacità amplificativa del mezzo adoperato. Questo si risolve in una sostanziale cassa di risonanza che si differenzia dalla stampa per essere tendenzialmente più circoscritta, ma non per questo è dotata di minore potenzialità negativa”.
Occorre quindi tenere ben presenti le potenzialità diffusive del mezzo adoperato per esprimere le proprie idee, nella consapevolezza che, ove le stesse si rivelino offensive e diffamatorie, il fatto integrerà un reato piuttosto grave, punibile anche con la reclusione, ed esporrà il suo autore all’obbligo del risarcimento del danno, che, a seconda della gravità dell’offesa, può assumere anche dimensioni rilevanti.
Il delitto è punito solo a querela della persona offesa, da proporre inderogabilmente entro tre mesi che decorrono da quando l’offeso ha avuto notizia del reato.
Anche se la querela può essere proposta personalmente e senza l’ausilio di un avvocato (e perfino in via orale), è sempre preferibile l’assistenza di un legale, che potrà consigliare le opportune cautele per la cristallizzazione della prova, la effettiva individuazione del colpevole, la eventuale contemporanea proposizione di una azione civile, etc.